La fotografa pluripremiata a livello internazionale, il cui lavoro sui detriti di plastica marina ha ricevuto riconoscimenti in tutto il mondo, mira a stimolare una risposta emotiva, costruendo abilmente una contraddizione tra il valore estetico e la consapevolezza di una responsabilità sociale. La stessa a cui fa riferimento Paola Antonelli, senior curator del Dipartimento di architettura e design al MoMA di New York e curatrice della XXII Triennale di Milano, che appena un anno fa ha lanciato un’indagine approfondita sui legami tra la nostra specie e l’ambiente naturale, intitolata “Broken Nature: Design Takes on Human Survival”.
La mostra ha celebrato la capacità del design di promuovere una visione nuova delle questioni chiave della nostra epoca, assumendo un ruolo di responsabilità politica rispetto ai problemi ambientali. “Il design si occupa della questione ambientale perché oggi è la questione più urgente che ci sfida e il design può essere responsabile, può cercare di ricostruire i rapporti con la natura e al tempo stesso non negare il nostro desiderio di creatività.”, afferma Paola Antonelli in un'intervista che fa da prefazione al libro Plastica addio, scritto da Elisa Nicoli e Chiara Spadaro, Ed. Altreconomia.
L’arte e la cultura possono dunque stimolare il senso critico, gli artisti possono offrire un esempio di buon comportamento civico, le opere possono ispirare un cambiamento.
Che cos’è la plastica? Come si costruisce una coscienza ambientale?
Abbiamo immaginato un dialogo a più voci che coinvolgesse competenze e sensibilità diverse, per tentare di trovare delle risposte.
Roland Barthes in Miti d’oggi (Ed. Einaudi, 1974) la descrive così: “Più che una sostanza è l’idea stessa della sua infinita trasformazione. Più che un oggetto essa è traccia di un movimento”.
La plastica costituisce il terzo materiale umano più diffuso sulla Terra dopo l’acciaio e il cemento.
Secondo il WWF la produzione mondiale di plastica è passata dai 15 milioni del 1964 agli oltre 310 milioni attuali: con la campagna #StopPlasticPollution chiede la stesura di un accordo globale tra i Paesi delle Nazioni Unite per fermare l’inquinamento da plastica entro il 2030.
Proseguendo con questi trend, nel 2050 in tutti gli oceani del mondo vedremo più plastica che pesci e 12 tonnellate costituiranno rifiuti sparsi in tutti gli ambienti [World Economic Forum, Ellen Mac Arthur Foundation e Mc Kinsey Company, 2016, The New Plastic Economy: Rethinking the future of plastic].
Dagli anni Cinquanta abbiamo prodotto circa 8,3 miliardi di tonnellate di plastica, riversandone in natura circa 6,3 miliardi. Il 79% è finita nelle discariche e in tutti gli ambienti naturali, il 12% è stato incenerito e solo il 9% riciclato [Geyer R., Jambeck J.R. e Law K.L, 2017, Production, use and fate of all plastic ever made, Science Advances].
Gli studiosi che stanno studiando l’individuazione di un nuovo periodo geologico della storia della Terra, stanno analizzando la plastica come un “tecno fossile” capace di essere presente nelle stratificazioni geologiche. Di pari passo, nelle isole Hawaii sono state individuate rocce definite plastiglomerato, perché la plastica è presente al loro interno.
Charles Moore, capitano di una barca e oceanografo americano, di ritorno da una regata nel 1997 incontrò un’isola di plastica talmente ampia che servirono sette giorni per attraversarla. Il Great Pacific Garbage Patch, situato tra il Giappone e le Hawaii, è l’accumulo più grande di tutti i mari, diventato uno dei più grandi simboli della crisi ambientale.
Uno studio scientifico pubblicato su Nature asserisce che l’isola di plastica nel Pacifico sia una sorta di continente di rifiuti in costante crescita, che misuri circa 1,6 milioni di km² e che contenga 80.000 tonnellate di rifiuti. La superficie di quest’isola di plastica è oltre tre volte quella della Francia.
Ci sono almeno altre cinque isole di plastica, di dimensioni più ridotte, collocate nell’Oceano Indiano, nel Nord Atlantico, nel Sud Pacifico, nel Sud Atlantico e nel Mar Mediterraneo. E in particolare, nel Mar Mediterraneo, l’area che si sta formando tra Elba e Corsica è densa più del doppio di quella del Pacifico. Anche Greenpeace in un recente rapporto ha stimato che la maggior parte dei grandi rifiuti di plastica che finiscono nei corsi d’acqua europei – da 150.000 a 500.000 tonnellate ogni anno – si riversano nel Mediterraneo.
Da alcuni anni assistiamo a moltissime iniziative, campagne creative e progetti di innovazione sociale che tentano di favorire una presa di coscienza circa l’urgenza di liberare il mondo che ogni giorno perde un battito.
Alcune di queste sono veicolate da Polimerica.it, un magazine online che dal 2003 si occupa di attualità e notizie dal mondo della plastica, con anche una sezione di blog di approfondimento.
Chiara Spadaro, antropologa, giornalista e autrice del suddetto libro Plastica addio, ripercorre la storia delle plastiche e colloca l’apparizione del primo materiale plastico semi-sintetico nel 1856: si chiamava parkesine. Fu inventato a Birmingham dal chimico inglese Alexander Parkes, trattando la nitrocellulosa con alcuni solventi.
Nel 1862 Parkes la brevettò e la presentò al Great London Exposition, descrivendola “dura come avorio, di qualsiasi grado di flessibilità, impermeabile e dai colori brillanti”.
In un viaggio lungo quasi 400 pagine la Spadaro ci insegna come riconoscere i diversi polimeri, ci racconta il paradosso dell’usa e getta, spiega nel dettaglio cosa sono le microplastiche e come arrivano fin dentro il nostro piatto, illustra i danni della plastica alla salute umana e in un capitolo curato da Massimo Acanfora, giornalista esperto di consumo critico ed economia solidale, propone un interessante approfondimento sulla riconsiderazione dell’efficacia del riciclo, che sembra non essere la soluzione, quanto piuttosto un palliativo.
Uno degli aspetti più stimolanti di questo progetto letterario a più mani è aver stilato delle chiare e semplici istruzioni per condurre una vita senza plastica, dalla spesa agli imballaggi, passando per i viaggi, l’igiene della casa e della persona, a cura di Elisa Nicoli, regista di documentari, scrittrice ed esperta di autoproduzione.
“L’approccio che mi ha esaltata e conquistata è quello americano, ma anche tedesco o lo zero déchet francese: ovvero puntare alla bellezza e alla durevolezza degli oggetti di uso quotidiano. La mia casa e la mia vita, man mano che mi libero dalla plastica, hanno cominciato a riempirsi di una nuova energia, più pulita, più solida, più viva”, scrive Elisa.
E aggiunge: “La cosa importante non è essere perfetti, ma fare tutti qualcosa ogni giorno, anche una piccola cosa, per evitare l’uso della plastica. La terra ha bisogno di milioni di persone che facciano la loro piccola parte”.
Quella di Franco Borgogno, giornalista, scrittore ed educatore scientifico ambientale e Presidente di Ocean Literacy Italia, è un’altra delle voci letterarie che hanno impresso una traccia di valore sul tema.
Autore per Repubblica del reportage-ricerca sulle plastiche al Polo Nord e del libro Un mare di plastica - Gli sconvolgenti risultati di una missione scientifica attraverso il passaggio a Nord Ovest, Ed. Nutrimenti, Borgogno ha viaggiato, osservato la natura, l’ambiente, le comunità umane, raccontandole e offrendo così il suo contributo alla conservazione della Terra. Il suo è un racconto di viaggio estremamente affascinante.
Un altro viaggio durato trenta giorni in trenta post-it è quello che ha fatto Filippo Solibello, conduttore radiofonico di Caterpillar su Rai Radio 2 e ideatore della campagna “M’illumino di meno” sui temi del cambiamento climatico e del risparmio energetico.
Solibello ha scritto un libro intitolato SPAM: Stop plastica a mare, Ed. Mondadori che sintetizza 30 piccoli gesti utili per salvare il mondo dalla plastica.
L’ispirazione arriva dalla telefonata che l’autore immagina di ricevere da un cavalluccio marino inciampato in un cotton fioc e che lo sfida a ripulire il mare in un mese.
Anche Will McCallum, responsabile per la tutela degli oceani di Greenpeace UK, sembra essere in assonanza con queste visioni. Nel suo libro Vivere senza plastica, Ed. HarperCollins, afferma che la plastica è diventata talmente onnipresente che, se vogliamo avere qualche possibilità di successo, eliminarla dalle nostre vite dev’essere un percorso capace di unire le persone, indipendentemente dalle loro situazioni e condizioni.
McCallum scrive il suo libro per quanti vorrebbero agire adesso ma non sanno da dove cominciare: “dalle nostre cucine alle sale riunioni delle multinazionali, il problema dell’inquinamento da plastica riguarda tutti, per questo ne siamo responsabili come individui ma soprattutto come collettività”.
Che fare allora?
Nel 2016 un ragazzo di New York di nome Rob Greenfield, oggi noto attivista ambientale e imprenditore, ha deciso di indossare ogni singolo rifiuto che avrebbe prodotto nell’arco di un mese: contenitori, sacchetti, bicchieri e bottiglie di plastica. Ha girato per le strade come un mostro della spazzatura in espansione.
Se guardiamo i numeri, l’unica via sembra quella di produrre meno plastica, o meglio ancora non produrne affatto. Dunque alle abitudini individuali si devono affiancare necessariamente una volontà politica e una produzione industriale coerente.
La FERRERO, per esempio, azienda leader mondiale, ha stretto di recente un accordo con Ineos Styrolution per lo sviluppo di imballaggi prodotti con materie plastiche ottenute da riciclo chimico di rifiuti plastici non altrimenti recuperabili, con l’intento di rendere tutti i loro imballaggi riutilizzabili o computabili al 100% entro il 2025.
Coca-Cola, pur essendo tra i più grandi produttori di plastica al mondo, ha annunciato che entro il 2030 si impegnerà a raccogliere e riciclare una bottiglia o una lattina per ogni bottiglia o lattina venduta.
Nel frattempo, l’Associazione nazionale dei comuni virtuosi ha costituito una rete di Enti Locali che dal 2005 opera in Italia a favore di una gestione sostenibile dei territori, diffondendo ai cittadini nuove consapevolezze e stili di vita all’insegna della sostenibilità.
Sul piano internazionale, la Break Free From Plastic ha riunito circa 1.400 Associazioni del mondo, tra cui anche Greenpeace, con la proposta di “portare il cambiamento sistemico attraverso un approccio olistico, che affronti l’inquinamento della plastica lungo l’intera filiera, concentrandosi sulla prevenzione piuttosto che sulla cura, e fornendo soluzioni efficaci”.
Dovremmo comprare una borraccia da riempire più volte quando è vuota, portare da casa una borsa quando facciamo la spesa, dovremmo parlare con gli amici, con le imprese locali, scrivere lettere ai quotidiani. Dovremmo batterci perché si inizino a tassare i produttori di plastica monouso. E chiedere ai negozianti perché vendono plastica non necessaria. Dovremmo coltivare un dialogo continuo.
Nel corso di una spedizione di Greenpeace, il fotografo naturalista Will Rose ha trascorso tre giorni accampato sulle remote isole Shiant per studiare una colonia di pulcinella di mare, robusti e splendidi pappagalli marini dotati di un grosso becco e capaci di volare senza sosta per mesi sui mari più impetuosi del pianeta.
Perfino su queste incantevoli isole, al largo della costa occidentale scozzese, Rose ha scattato una foto terribilmente allarmante: un esemplare, orgogliosamente appollaiato su una roccia che da migliaia di anni è la casa dei suoi antenati, con una sottile striscia verde di plastica nel becco.
Iniziamo a lavorare: è tardi, ma l’occasione è unica, imperdibile.